sabato, agosto 12, 2006

Cammino per strada. Il sole non brucia come solitamente d’estate. L’asfalto non sbuffa calore. C’è un filo d’aria, che figuriamoci se non si intrufola tra i vestiti e tra i capelli. Mi fermo. Non passa un’auto che sia una. Meglio così. Questa zona vicino a casa tra un po’ sarà diversa, deformata da un’arteria che convoglierà parte del traffico del centro. La ferrovia sembrava un limite invalicabile, un confine tra la zona industriale e questo ultimo scampolo di campagna. Una barriera che ha resistito per molti decenni: una barriera tuttavia troppo facile da aggirare. I miei nonni erano contadini, hanno “lavorato la terra”, quella stessa terra che diventerà asfalto. Quanti sacrifici per un raccolto… ricordo ancora gli occhi volti al cielo da parte del nonno quasi a supplicare un pò di pioggia o la fine della grandine. Avanzo lentamente e mi tolgo i Ray-ban neri: voglio avidamente conservare il ricordo di questa zona, senza schermi. Ormai i lavori sono ultimati: la striscia nera è ancora innocua, confusa tra il verde di cespugli e fronde: questo fiume di catrame si snoda attraverso quel che resta della campagna, che si ritrae e si lecca le ferite, dopo l’ennesima amputazione. Seppur mutilato, senza il flusso di vetture e camion che presto lo invaderà, questo spicchio di territorio mi è ancora familiare. E me lo voglio godere così, silenzioso, ingenuo, defilato un'ultima volta ancora.

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